Il potere dell’arrampicata (al femminile)

photo © "Climbing for a Reason"_ Wafaa Amer

Due donne, due atlete, un unico progetto.

Tamara, classe 1986, italiana, ha sempre vissuto in montagna, sviluppando una passione per l’alpinismo che all’epoca l’ha portata ad essere la più giovane donna in vetta al Lhotse e la seconda donna italiana a scalare la vetta del K2… per dirne un paio. Negli anni ha partecipato a numerose spedizioni con diversi compagni di cordata, tra i quali Simone Moro.

Wafaa, 27 anni, è nata nel piccolo villaggio di Aghur in provincia di Kalyobya in Egitto. A 9 anni è arrivata in Italia, dove ha conosciuto l’arrampicata, disciplina in cui eccelle e che le ha aperto nuovi orizzonti, cambiandole radicalmente la vita.

 

È bastata una videochiamata organizzata da La Sportiva, di cui sono entrambe ambassador, perché tra le due nascesse un’intesa speciale che le ha portate in Pakistan a condividere il progetto “Climbing for a Reason”, con lo scopo di dare un’occasione di futuro grazie all’arrampicata alle bambine e ai bambini della valle del Shigar, in Pakistan.

A loro ci siamo rivolte per raccontare, in questo 8 marzo, la storia di due donne davvero speciali.

“Climbing for a Reason” _photo ©Wafaa Amer

D: “Esistono ancora sport da maschi e sport da femmine?”

Tamara (T): Credo che non esista sport che non sia praticabile dalle donne, ma penso che a volte siano le donne a non sentirsi pronte ad affrontare certe difficoltà ed avventure. Ci sono sport e gare che vengono ancora visti come tipicamente maschili, come la Red Bull Dolomitenmann, che è stata aperta alle donne solo l’anno scorso (e a cui io ho partecipato). Ma il limite è solo nella nostra testa.

Wafaa (W): Purtroppo ci sono persone che credono esistano ancora sport da donne o uomini. Per me esiste solo lo sport e ognuno di noi, uomo o donna che sia, deve essere libero di praticare quello che desidera.

D: “Perché lo sport è così importante per te? Quali valori ti ha trasmesso? E qual è il tuo obiettivo?”

T: Fare qualcosa col proprio corpo porta sempre un beneficio per corpo e anima. Grazie allo sport non solo stai meglio, ma crei anche una connessione maggiore con te stessa, capisci come collegare il cervello a tutto il tuo corpo. Lo sport outdoor, come l’alpinismo, ti insegna che bisogna lavorare duro per ottenere qualcosa, e impari il rispetto per la natura, la connessione con te stesso la perseveranza. Ho vissuto situazioni in cui sono stata vicino alla morte e ho scoperto che capire come “tu funzioni”, conoscere il proprio corpo, valga oro. La montagna è la maestra più grande della mia vita.

W: Lo sport mi ha dato una famiglia, degli amici. Mi ha insegnato che non esistono limiti, ed io l’ho interpretato in tutti i sensi: da un punto di vista fisico, perché se ti alleni con dedizione puoi raggiungere e superare certi risultati, e da un punto di vista culturale. L’arrampicata mi ha fatto riflettere e mi ha spinto ad uscire dai limiti che la mia cultura mi imponeva in quanto femmina. A 15 anni ho scelto di scalare, contro la volontà di mio padre, perché ho realizzato che non stavo facendo nulla di male, e che avevo un recinto culturale costruito intorno a me, che bastava superare per entrare in un mondo dalle mille opportunità. Mia mamma mi ha sempre appoggiato nelle mie decisioni. Quando sono stata costretta a scegliere di andarmene di casa per evitare di dovere tornare in Egitto per restarci, mi ha comunque supportato anche se è stato un distacco doloroso anche per lei. Per quanto mi riguarda ho fatto un tuffo nel vuoto, ma non avevo alternative, e la scalata mi ha aiutato a farlo.

“Climbing for a Reason” _ photo ©Wafaa Amer

D: “Come ti sei avvicinata al tuo sport?”

T: Sono cresciuta in montagna e papà scalava quando ero piccola. Lo accompagnavamo alle gare da semi professionista di arrampichino ed ero affascinata da quell’ambiente, dalle maglie degli sponsor, dalla festa. All’epoca era tutto più facile: mi ricordo che quando la mattina papà andava in bici al lavoro, la mamma gli metteva la carta del giornale Dolomiten sotto la maglietta perché non c’erano materiali tecnici. Era un’epoca che mi fa ancora illuminare gli occhi, per la sua semplicità. Papà non mi ha costretta a seguire il suo sport: noi dovevamo lottare per ottenere qualcosa e così è diventata ancora più una passione.

W: A 15 anni ero abbastanza sola, l’unica amica che avevo era Erica. Un giorno a scuola arriva il prof. di ginnastica che ci propone l’arrampicata come attività sportiva extracurriculare. Erica arrampicava già, ed era entusiasta all’idea di farlo insieme. Io ero gasatissima, sono tornata a casa e ho chiesto subito a papà il permesso di aderire, ma lui si è rifiutato di firmarlo e di darmi i soldi per la palestra. A quel punto, Erica ed io abbiamo deciso: io ho falsificato la firma per l’autorizzazione, lei ha chiesto ai suoi i soldi per permettermi di farlo. Quando sono entrata in palestra ero felicissima, è stato come se fossi in un parco giochi, in cui peraltro non ero mai stata! L’arrampicata ha cambiato il mio essere donna: ho iniziato a fare cose che prima non facevo, all’inizio titubante. Quando hanno iniziato a dirmi che ero brava, che ero forte, ho continuato ad allenarmi di nascosto. Le altre ragazze scalavano in top, e io ho iniziato ad usarlo; gli altri uscivano in pizzeria ed io ho chiesto per la prima volta se potessi mangiare fuori a cena con amici, invece che stare con la famiglia… tante piccole cose che mi erano vietate ma che ho iniziato a fare. Piano piano mi sono accorta che non facevo nulla di sbagliato.

D: “Cosa avresti fatto se non fossi diventata un’atleta?”

T: È strano, ma da piccola ho sognato più volte che sarei stata un macellaio. Nei miei sogni i macellai erano forti, portavano mezzi maiali sulle spalle. Ancora mi chiedo perché li sognassi cosi spesso, era più un incubo, ma per me erano personalità dure, pure, tutta potenza, ed io volevo essere così.

W: Quando ero bambina e vivevo in Egitto, passavo sempre davanti a una delle poche ville del mio villaggio, che era sempre chiusa. Una volta però il custode ha aperto il cancello e guardando dentro ho visto fiori e cespugli color lilla e poi una donna al volante in macchina. Quello spettacolo mi ha fatto pensare che nella mia vita avrei voluto diventare qualcosa. Non so cosa sarei diventata se non avessi conosciuto l’arrampicata. Ma so che avrei fatto QUALCOSA.

“Climbing for a Reason” _ photo © Tamara Lunger archive

D: “CLIMBING FOR A REASON, un progetto solidale per insegnare alle bambine del Pakistan ad arrampicare: come e perché avete aderito a questo progetto?”

T: Tutto è nato a seguito della tragedia nel 2021 sul K2, in cui ha perso la vita il mio amico cileno Juan Pablo Mohr (JP).  Quando sono tornata alla civiltà ho conosciuto il cugino ed un amico di JP, e abbiamo deciso di realizzare il suo sogno: portare l’arrampicata tra le bambine e i bambini della valle del Shigar in Pakistan, per dare un’occasione di futuro alle nuove generazioni. Nel 2020, durante il “Tamara tour in Italia” avevo conosciuto Wafaa a Finale Ligure: quando si è trattato di organizzare la partenza per il Pakistan, ho pensato subito a lei, perché è una donna musulmana che può capire meglio quella cultura e perché non aveva mai fatto un viaggio del genere e poteva essere una esperienza che l’avrebbe fatta crescere.

W: Quando nel 2020 La Sportiva mi ha proposto di incontrare Tamara che passava con il suo tour per la Liguria, è stata simpatia immediata: abbiamo subito sentito una connessione e una sintonia nel modo in cui intendiamo lo sport e la vita. A distanza di poco tempo, Tamara è tornata a trovarmi, abbiamo fatto gli zaini per scalare e arrivati in cima a Borgio Verezzi mi ha detto “Sei pronta ad andare in Pakistan?”. Io sono rimasta sorpresa ed eccitata, felice di poter portare la scalata in una cultura in cui le donne non possono essere sportive e sono limitate nella loro libertà. Non conoscevo JP, sapevo solo quanto fosse stato importante per Tamara e quanto Tamara tenesse a questo progetto, e sono felice di averne preso parte.

D: “Come è stato l’incontro con questa cultura?”

T: È stato difficile far partire il progetto: In Pakistan abbiamo incontrato molte resistenze nel primo villaggio, mentre nel secondo è stato più facile.
Alla fine ce l’abbiamo fatta: le ragazze all’inizio erano intimidite, non ci parlavano. Nei villaggi non puoi vedere le donne, che si coprono e scappano via. Ho scoperto una cultura nuova: dai 9 anni una ragazza diventa donna e non può più fare certi movimenti come ad esempio le flessioni, perché si vedono le forme del corpo. Ho trovato la loro mentalità difficile. Da una parte mi faceva piacere entrare sempre più nella loro cultura, dall’altra un po’ mi rattristava.

W: Pur conoscendo la religione musulmana, la scoperta della cultura pakistana è stata una bellissima sorpresa per me. A differenza di Tamara non ho faticato a capire certe loro tradizioni, come ad esempio la suddivisione tra uomini e donne. Molti loro aspetti culturali sono simili a quelli che ho conosciuto in Egitto, ma altre cose, da italiana, faticavo ad accettarle. Quando camminavamo verso la falesia passando davanti ai caffè pieni di uomini, abbiamo notato che le bimbe acceleravano: ho spiegato a Tamara che le ragazze erano imbarazzate e per questo aumentavano il passo. Faceva molto caldo ma le bimbe erano con la loro tunica e il velo, io facevo fatica a coprirmi pur sapendo che, come quando vado in Egitto a trovare i miei nonni, è corretto coprirsi per rispetto. Abbiamo anche dovuto ingegnarci per mettere loro l’imbrago. Era strano doversi “adattare” alla loro cultura, pur capendola.

D: “Qual è il futuro del progetto?”

T: Alla nostra partenza abbiamo cercato di garantire la presenza di qualcuno che portasse avanti il progetto, e quest’anno proverò a tornare per capire la situazione. Prima di partire abbiamo avvertito che non c’era piena volontà di continuare a far arrampicare le bambine, per cui inventavano scuse, dicendo che c’era la scuola, gli esami, che uno dei ragazzi scalatori di Islamabad che dovevano aiutarci non poteva venire perché aveva la barba e quindi poteva essere un talebano. Quando siamo andate via, le ragazze avevano le lacrime agli occhi, ci dicevano “dovete tornare, promettetelo”. Nonostante tutte le difficoltà culturali, ho percepito la loro voglia di “uscire”, ho visto che hanno desideri e obiettivi. Una ragazza mi ha anche detto di voler scalare il K2! Quando ero lì ho sentito la presenza di JP ogni giorno, sentivo la sua anima e voglio portar avanti il progetto per lui.

W: Il mio intento è quello di tornare in breve tempo per non perdere quanto fatto. Sono andata via sperando che le bimbe e bimbi conosciuti possano aver capito che possono diventare quello che vogliono nella vita e fare qualcosa di diverso e sono certa che questa esperienza li abbia aiutati. L’arrampicata ti insegna che per superare un passaggio ostico devi provare e riprovare: ecco perché ne sono sicura.

 

È bello pensare che queste due donne, così diverse per esperienza, provenienza e cultura, siano riuscite ad unirsi a supporto di altri: è il potere dell’arrampicata, al femminile.