Il senso di Omar per la neve

photo © Omar Di Felice. Penisola Snaefellsnes (Islanda)

di Ercole Giammarco

 

Omar Di Felice è un buon esempio di come per fare cose da matti bisogna essere persone equilibrate. Classe 1981, romanissimo, ha una faccia allegra che mi ricorda quella di Zerocalcare, ma lo sguardo di chi, al contrario del grande fumettista romano, un suo equilibrio di vita lo ha trovato, eccome.

Omar è uno dei migliori ultracyclist in circolazione (nel mondo). La sua specialità è pedalare come non ci fosse un domani dove scarseggia l’ossigeno (fino al Campo Base dell’Everest, che è una delle sue ultime imprese) o in lande dove si è fortunati se il termometro non scende sotto i -20° (tra le altre, la Dalton Highway in Alaska, percorsa naturalmente d’inverno).

Omar si innamora del ciclismo guardando le imprese di Pantani in TV (come dargli torto?) e con la sua prima bici da corsa (…mi sono dimenticato di chiedergli che bici era), a 13 anni inizia a gareggiare. Qualche anno dopo comincia la carriera professionistica, ma presto la abbandona perchè capisce che “nel ciclismo non sarei stato un protagonista e quindi era meglio dedicarmi ad altro”. Che, a proposito di equilibrio, è una saggia riflessione.

In realtà forse capisce anche un’altra cosa, e cioè che la bici poteva dargli qualcosa di diverso che vincere o perdere una gara. La bici poteva diventare il compagno di viaggio di un percorso di conoscenza interiore, uno strumento per saggiare i propri confini e spostarli continuamente, un modo per vivere la complessa relazione fra te e il mondo che ti circonda, fra i tuoi limiti umani e la potenza senza limiti della Natura.

photo © Omar Di Felice

Nel 2012 parte da Lourdes e pedala ininterrottamente 4 giorni per coprire i quasi 1300 km che lo separano da Santiago da Compostela. Con quel viaggio capisce definitivamente che è quello il modo in cui lui vuole pedalare.

Chi ha fatto esperienze estreme di fatica sportiva sa bene che quando non ce ne è più per i muscoli si attivano risorse mentali che non si era consapevoli di possedere: il cervello stacca la spina da quella voce interiore monologante che è il nostro Io cosciente, se ne libera e si fonde col resto del mondo.

Per usare termini mistici, si cessa di esistere nella propria individualità e si diventa parte di un tutto che ti annienta come soggetto, e ti illumina.

Forse ho esagerato, ma in effetti santoni anacoreti e sciamani di ogni tempo e latitudine usano il superamento dei loro limiti fisici (col digiuno, la fatica, l’insonnia…) per raggiungere questo stato della percezione. Che si chiama estasi.

photo © Omar Di Felice

Ma Omar non è un mistico, almeno non un mistico di quel tipo: come ho detto prima è un uomo meravigliosamente equilibrato. E me lo ha dimostrato nella breve conversazione che abbiamo avuto.

Una volta le avventure estreme erano il prezzo (salato) da pagare alla ricerca scientifica o alla esplorazione geografica. Adesso le sfide estreme sono diventate un fine e non un mezzo. Perchè? Cosa  spinge un uomo a performance ai limiti dell’umano?

Non è cosi. Le avventure estreme restano un mezzo per continuare ad esplorare in un mondo in cui tutto sembra essere stato esplorato, dove non c’è più nulla da scoprire. E diventano strumento di scoperta di un paesaggio interiore non meno vertiginoso di quello che Sir Livingstone guardava per la prima volta avventurandosi fra i maestosi paesaggi dell’Africa Nera.

È anche un modo per uscire dalla nostra sonnolenta zona di confort e riconnettersi al passato sportivo dei tempi eroici: le prime tappe del tour de France erano di 300 km con le lampade a petrolio sul manubrio della bici lungo strade quasi mai asfaltate…

Insomma questo modo di pedalare è un modo per riappropriarsi della gioia della scoperta e dell’imprevisto per noi cittadini del terzo millennio, seduti sull’illusione di avere tutto a portata di mano, tutto sotto controllo.

Faresti quello che fai se non ci fossero gli strumenti per condividerlo con il resto del mondo (social, video, libri…)? 

Se non fossi mosso da una grande passione non farei quello che faccio. Ma quando la passione diventa lavoro, si aggiungono pezzi: la comunicazione è uno di questi pezzi e trasforma la mia esperienza, insieme ai progetti educativi e sociali che curo, in qualcosa di utile al prossimo. Credo che abbia un senso condividere con altri esperienze così personali, farle diventare patrimonio comune di esperienze.

4 ingredienti senza i quali non riusciresti a fare quello che fai.

Passione, conoscenza, capacità tecnica e capacità organizzativa (che sembra parte del decalogo di un architetto rinascimentale più che di un ultracyclist del terzo millennio n.d.r.)

Il momento più bello e quello più brutto della tua vita di sportivo?

Il momento o meglio il periodo più bello è stato quando ho capito, fra il 2017 e il 2018, che stavo riuscendo a trasformare la mia passione per la bici in un lavoro. Vivere della propria passione è il dono più bello che si possa ricevere dalla vita.

Momenti ”brutti”? Ce ne sono stati molti, ma non li definirei “brutti”, piuttosto ”complicati”. Fanno parte anche loro della bellezza dell’avventura e sono il sale della libertà che mi godo pedalando.

 

Come diceva Sir Ernest Henry Shackleton, leggendario esploratore del polo Sud (vedi qui) “le difficoltà sono solo cose da superare, dopo tutto”. Se non la pensi così il deserto dei Gobi in autosufficienza d’inverno non te lo fai in bicicletta. Ma neanche in macchina.

photo © Omar Di Felice. L’Alaska Highway (Canada)