Kílian Jornet i Burgada

photo © Path to Everest

di Alessandro Gogna

 

Intorno alle 2 del mattino del 28 maggio 2017, Kílian Jornet era sulla parete nord del Monte Everest, da solo, in delirio, a circa 8100 metri e fuori via. Stava scendendo dalla vetta di 8848 metri, che aveva salito per la seconda volta senza ossigeno in sette giorni. Ma ora si era perso e non riusciva a capire come poteva essersi sbagliato. Nevicava, e nel gelo della notte il pendio diventava sempre più precario a ogni passo. Ormai era evidente che doveva aspettare l’alba per poter continuare.

Alle prime luci del giorno valutò d’essersi allontanato per più di mezzo miglio dalla cresta nord, cioè dalla via che avrebbe dovuto seguire per raggiungere il Colle Nord e poi il campo base avanzato (Advanced Base Camp, ABC), a circa 6400 m. Non aveva radio o telefono satellitare e non aveva modo di allertare il suo compagno, il regista Sébastien Montaz-Rosset, e gli altri amici. All’ABC con un cannocchiale scrutavano con ansia alla sua ricerca, perché ormai in ritardo da ore. È qui che nel film The Path to Everest viene pronunciata con preoccupazione la famosa frase: “12 ore di ritardo per Kílian Jornet vogliono dire 3-4 giorni di ritardo per i normali alpinisti!”.

Il catalano Kílian Jornet i Burgada nacque a Sabadell il 27 ottobre 1987. È stato cresciuto a Cap del Rec, un rifugio a 2000 metri, gestito dalla sua famiglia in quel di Lles de Cerdanya. I suoi genitori, grandi appassionati di sport e di montagna, sin da bambino l’hanno coinvolto in parecchie ascensioni, anche in quota; a cinque anni Jornet i Burgada aveva già toccato i suoi primi tremila e quattromila.

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Ma vediamo un po’ di quali record prestigiosi il nostro si può vantare. Il 17 giugno del 2009 batté in 32h 54’ il primato del percorso GR 20, che attraversa l’intera isola della Corsica, riducendo di quasi quattro ore il record precedente detenuto dall’italiano Piero Santucci. Sono 200 km e 12.000 metri di dislivello. Il 9 giugno 2010 portò a termine la traversata dei Pirenei (830 km, 40.000 m di dislivello) in otto giorni e tre ore. Il 28 settembre dello stesso anno stabilì, in 7h 14′, il nuovo primato di velocità di salita e discesa del Kilimanjaro.

L’Everest era il culmine del progetto Summits of My Life, che Jornet aveva iniziato nel 2012 nel tentativo di stabilire record di velocità su una manciata di vette simbolo, tra cui il Monte Bianco (11 luglio 2013, 4h57’40” da Chamonix a Chamonix), il Cervino (21 agosto 2013, 2h52’2” Cervinia-Cervinia, circa 22’ in meno del record di Bruno Brunod dell’agosto 1995), l’Elbrus, il Denali (7 giugno 2014, 11h48’) e l’Aconcagua (23 dicembre 2014, 12h49′). Il Monte Bianco lo aveva visto protagonista anche per la traversata Courmayeur-Chamonix: da solo per la via dell’Innominata in appena 8h42’57” secondi. Partito martedì 18 settembre 2012 alle 3.53 del mattino dalla chiesa di Courmayeur, alle 10.15 arrivò in cima a 4810 m, per poi scendere in 2h19’ minuti, arrivando a Chamonix lungo la voie Royale.

Nel 2014 esce il suo film Déjame Vivir, un bellissimo lungometraggio in cui racconta le imprese compiute su Monte Bianco, Elbrus e Cervino.

Sull’origine dell’idea di Summits of My Life (che poi è anche il titolo del suo libro di maggiore successo) Jornet racconta: “Tutto inizia con una foto del Cervino presente nella mia cameretta quando ero bambino… Un giorno, nel 2011, tornato da un allenamento rividi quella foto… Avevo avuto la fortuna di incontrare persone come Marino Giacometti, padre dello sky running, che aveva scalato vette mitiche con materiale molto leggero. Aveva insegnato a corridori come Fabio Meraldi o Bruno Brunod a stabilire record di velocità su e giù per il Monte Bianco, l’Aconcagua, il Cervino… Il mio cuore batteva all’impazzata e ho capito che era ora di iniziare i Summits della mia vita”.

A quel punto, all’età di 24 anni, le corse per lui avevano perso un po’ del loro significato. Continuava a competere, ma aveva già vinto tutto quello che c’era da vincere, spesso più volte, anche le gare più pazzesche come il Colorado’s Hardrock 100, l’Ultra Trail du Mont Blanc (UTMB) e la breve ma brutale Mount Marathon dell’Alaska.

Dopo un inizio tragico in cui, sul Monte Bianco, dovette assistere impotente alla morte del compagno Stéphane Brosse per il crollo di una cornice di neve, Jornet ha continuato a sfrecciare su e giù, stabilendo record e producendo una documentazione impressionante di ogni impresa: foto, post su blog, diversi filmati. Quando è andato all’Everest nel 2017, la sua terza spedizione a quella vetta in tre anni, era uno degli atleti più conosciuti negli sport d’avventura, con un solido seguito sui social media, di cui quasi 250.000 su Twitter e oltre mezzo milione su Instagram.

Molte persone si erano sintonizzate sui suoi feed durante la spedizione all’Everest, ma solo per trovarli un po’ reticenti. Quando è esplosa la notizia, il 28 maggio, che Jornet aveva scalato l’Everest non una ma due volte in una sola settimana e che stava rivendicando un nuovo record di velocità, è sembrato straordinario al punto da far dubitare. Due salite, una dietro l’altra? Senza ossigeno? Da solo? Stando ai dati che il ricercatore Eberhard Jurgalski ha raccolto su 8000ers.com, solo 21 alpinisti hanno scalato l’Everest più di una volta senza ossigeno. La metà di loro sono sherpa, mentre l’altra metà presenta nomi illustri come Reinhold Messner (1978 e 1980), Marc Batard (1988 e 1990), Òscar Cadiach (1985 e 1993), Anatolij Bukreev (1995 e 1996) ), Ed Viesturs (1990 e 1996), Iván Vallejo (1999 e 2001) o Silvio Mondinelli (2001 e 2010).

Reinhold Messner ha inaugurato la lista, il 20 agosto 1980, due anni e tre mesi dopo aver fatto la prima montagna senza ossigeno l’8 maggio 1978. Nel 1985, il record di Messner è stato superato da Sherpa Ang Rita (che detiene il record per aver scalato l’Everest dieci volte senza ossigeno), dopo aver raggiunto la vetta il 15 ottobre 1984 e il 29 aprile 1985, sei mesi e mezzo dopo. Il record di Ang Rita ha tenuto per 14 anni, fino a quando il suo connazionale Babu Chiri lo ha battuto alla sua terza vetta dell’Everest senza ossigeno (la prima era stata nel 1996). Nella primavera del 1999, Babu Chiri ha raggiunto la sua vetta per la prima volta il 6 maggio e si è ripetuto 20 giorni dopo, il 26 maggio dello stesso anno.

Vediamo di capire cosa ha fatto Kílian Jornet, allora trentenne. C’era già stato lo sherpa Pemba Dorje che nel 2004 aveva stupito con la salita più veloce della storia dell’Everest: con ossigeno, era salito dal versante nepalese in 8h10’. Poi, nel 2007, Pemba Dorje ha raggiunto la vetta dell’Everest due volte senza ossigeno, a soli 7 giorni di distanza: la prima l’8 maggio e la seconda il 15 maggio.

photo © Path to Everest

Il mondo della grande informazione fece risaltare che Kílian Jornet aveva “strappato” il record agli sherpa, dopo aver completato i suoi due Everest senza ossigeno in soli 6 giorni. Reinhold Messner (lo si vede anche nel film) liquidò l’impresa come una semplice corsa, non come alpinismo, aggiungendo che “avrebbe cominciato a riconsiderare la figura di Jornet solo quando questi avesse smesso di misurare con il cronometro le proprie salite, per poter realizzare invece prime ascensioni dove trionfasse la sua creatività”. Se agli addetti la doppia impresa di Jornet sembrava da marziani, inutile dire quanto clamore suscitò nel pubblico più ampio.

Quell’estate, Jornet continuò a registrare una serie di successi incredibili. Due settimane dopo l’Everest fermò il tempo a 1h30” in una mezza maratona su strada in Norvegia con un dislivello di 1600 metri. Ad agosto aveva vinto l’Hardrock, la Marathon du Mont Blanc, l’ultracompetitiva svizzera Sierre-Zinal e la gara di trail Glen Coe Skyline. Si è piazzato secondo solo all’UTMB, all’inizio di settembre, a 15 minuti dal suo compagno di squadra François D’Haene.

Intanto le due imprese all’Everest iniziavano a essere esaminate. Dov’erano le prove, chiedevano i critici: le foto della vetta, la traccia GPS, i testimoni? Perché il suo più grande successo, in una carriera disseminata di risultati meticolosamente documentati, era rimasto così nebuloso?

Nell’avventura (ma anche nello sport, basti pensare a Lance Armstrong) se ne sono viste di cose, ombre che gettano buio su imprese che dovrebbero far sognare. E purtroppo l’eccellenza ha uno svantaggio: quello di invitare allo scetticismo. Lo sapeva bene anche lui, già dal 2008, all’età di 21 anni, quando si presentò al suo primo UTMB non avendo mai gareggiato in niente di più lungo che una maratona. Al km 64 era andato in fuga, distanziando i più anziani ed esperti. Gli organizzatori francesi non erano contenti. A una quindicina di km dal traguardo, all’ultimo posto di blocco, lo trattennero per più di un’ora. Era sospettato di fare da pacer (e non era vero), lo accusarono di non portare l’attrezzatura obbligatoria (che invece aveva). Nonostante il ritardo tagliò per primo il traguardo, con più di un’ora di vantaggio, ma non fu dichiarato vincitore fino al giorno successivo.

Stavo solo per salire in macchina e tornare a casa” ricorda Jornet. “Ero nel mood del tipo fanculo, fanculo la gara e tutto il resto“.

Kílian nel 2015, assieme alla fidanzata, l’ultrarunner svedese Emelie Forsberg, si era trasferito a Romsdal sulla costa occidentale della Norvegia per sfuggire al casino di Les Houches, nella valle di Chamonix, dove risiedevano in precedenza ed erano grandi celebrità. Ora c’è anche la figlia Maj. Sempre nel 2015 aveva iniziato a collaborare per salite occasionali con Ueli Steck, di certo una partnership assai naturale. Steck era uno scalatore di sovrumano talento che poteva affrontare in velocità le vie estremamente tecniche. Jornet era il mostro aerobico che poteva macinare metri senza cibo né acqua. Assieme hanno scalato la Nord dell’Eiger in quattro ore, meno di dieci ore da casa a casa.

Nell’aprile 2017 Jornet era sul Cho Oyu quando Steck morì sul Nuptse, non così distante. Oltre a perdere un amico, Jornet aveva perso un collega speciale con cui poteva relazionarsi. “Abbiamo parlato molto di cosa significa muoversi in montagna” confidò Jornet “Ueli proveniva da un background super tecnico – come la pura difficoltà – e io provenivo dalla resistenza. Stavamo entrambi cercando di imparare l’uno dall’altro“.

Anche Steck era stato vittima di una grossa polemica su quella che senza dubbio era la sua più grande conquista: la salita in solitaria in 28 ore della pazzesca parete sud dell’Annapurna. Steck non produsse foto della vetta affermando che la sua macchina fotografica gli era stata fatta cadere di mano da una valanga, né consegnò dati GPS perché non ne aveva registrati. Tuttavia, grazie alla credibilità guadagnata con le precedenti imprese, Steck fu insignito del Piolet d’Or, la più alta onorificenza dell’alpinismo, per la sua salita dell’Annapurna.

Il caso sollevato contro le scalate consecutive all’Everest di Jornet è similare: mancanza di documentazione che attesti il risultato storico. La disputa è stata avviata da Dan Howitt, uno scalatore di Portland, Oregon. Costui produsse e diffuse un documento di 19 pagine che esaminava, nei minimi dettagli, l’ascensione di Jornet al Cho Oyu, all’inizio di maggio, ed entrambe le sue scalate all’Everest più tardi nello stesso mese.

Il caso di Howitt contro Jornet si concentra su due punti principali: nessuna immagine della vetta convincente e dati GPS discutibili. Non appena fu pubblicato integralmente dall’autorevole sito web britannico Mount Everest the British Story, nell’estate del 2017, il rapporto suscitò un ampio dibattito. Molti si arrabbiarono, difendendo Jornet: a tal punto che il fondatore del sito, Colin Wallace, si convinse a rimuovere l’articolo.

Il rapporto di Howitt solleva domande legittime, ma fornisce principalmente incertezza, non una prova che Jornet abbia mentito. E questo è un fenomeno abbastanza comune nella nostra era digitale. Jornet rimaneva per lo più in silenzio mentre il suo accusatore continuava la sua campagna mediatica. Rispose alle accuse a dicembre, affermando che il suo GPS aveva funzionato male e che foto e video non erano stati pubblicati per valorizzare l’uscita, la primavera dopo, del film The Path To Everest. 

In tutto Jornet trascorse meno di un mese in Tibet, i primi dieci giorni sul Cho Oyu 8188 m dove, accompagnato fino a un certo punto da Emelie, aveva raggiunto l’altopiano sommitale ma non la vetta. Kílian si era allenato per un mese su una cyclette respirando ossigeno ridotto attraverso una maschera facciale. Sembrava funzionare.

Poi la piccola squadra si è spostata al campo base dell’Everest, ai piedi del ghiacciaio Rongbuk. Oltre a Kílian, altre due persone: Sebastian Seb Montaz-Rosset e il cuoco nepalese Sitaram. Era un quartier generale comicamente minuscolo: una tenda mensa e tre piccole tende monoposto. Il 18 maggio, dopo una sosta di una notte all’ABC a 6400 m, Jornet fece una salita di prova fino a 8380 m alla media di 300 metri all’ora. “Ho fatto uno stupido sprint sulla cresta nord” raccontò. La vetta luccicava allettante a 470 metri di dislivello: Jornet si sentiva benissimo ma rimase fedele al suo piano: scendere al campo base, recuperare e fare un vero tentativo un paio di giorni dopo.

Il 20 maggio partì dal campo base alle 22. Quando raggiunse il Colle Nord, a 7000 m, si sentiva malissimo e iniziò a lottare con problemi di stomaco. Salì la cresta in condizioni decisamente diverse dalla volta precedente. Arrivò in vetta nel cuore della notte. C’è una foto finale scarsamente illuminata sulla cresta e poi un video del suo viso nell’oscurità, illuminato dalla piccola lampadina della GoPro. Nella clip è seduto, respirando affannosamente. Sopra la sua spalla, catturando brevemente la luce dalla sua macchina fotografica, si intravedono bandiere di preghiera, l’unica prova che è in vetta. “Era difficile filmare” dice Jornet “Era l’ultima cosa a cui stavo pensando“.

Nella sua seconda salita, quella dove poi in discesa si è perso sulla parete nord, il tempo era peggiore, ventoso e freddo, ma si sentiva meglio e si muoveva più rapidamente: di nuovo in vetta al buio. C’è un’altra clip, ma solo della sua faccia, nessuna bandiera questa volta. Indossa una maschera e sembra profondamente stanco. In tutti i filmati delle imprese di Kílian quella è la prima volta dove appare letteralmente esausto. Non ha mai rivendicato un record di velocità. L’onore del FKT (Fast Known Time) resta a Christian Stangl, che effettuò la salita nel 2006 in 16h42’, circa 18 minuti più veloce di Jornet.)

photo © Path to Everest

Forse c’è una spiegazione molto semplice per questa doppietta all’Everest, e ce la fornisce nientemeno che Steve House, il quale ritiene che Jornet sia l’esempio di ciò che accade quando si registra una media di quasi 1.000 ore di corsa in montagna all’anno per 17 anni: “Tutto questo volume gli permette di fare una vasta gamma di cose, e di farle bene”.

Anche un successivo rapporto prodotto da Kílian non fu esaustivo, ma di certo rimane l’argomentazione più convincente che abbia mai fatto, delineando le complessità del tracciamento GPS che aiutano a spiegare perché le sue rotte alla vetta non siano allineate a quelle di Adrian Ballinger. In ogni caso Jornet sembra rassegnato al fatto che la totale chiarezza possa essere impossibile. “Penso che ci saranno sempre fan, e ci saranno quelli che dubitano” ha detto “Non voglio perdere tempo con gli hater, ma capisco la necessità delle prove“.

Jornet è stato l’ideatore della Fondazione Kílian Jornet la cui missione principale è quella di preservare le montagne e il loro ambiente. Essa opera con azioni dirette (creazione e finanziamento di progetti volti a risolvere i problemi ambientali in montagna come la pulizia di aree contaminate o l’installazione di infrastrutture sostenibili per ridurre l’impatto umano), ma è anche focalizzata sull’educazione e sulla sensibilizzazione, come pure sull’investire in studi e servizi di monitoraggio per comprendere meglio gli effetti dei cambiamenti climatici sugli ambienti montani e stabilire i migliori strumenti possibili per affrontarli.

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